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TROPPI MISTERI AVVOLGONO AGRIGENTO

Intervista di Diego Romeo a Gianni Morici direttore “VALLE DEITEMPLI.NET

Nell’Agrigento dei misteri degli hackeraggi, delle strane aggressioni, circola la notizia di un libro introvabile ma che è stato letto fortunosamente e il cui autore è intervistato in luogo segreto raccontando “mirabilie” tra politica e mafia. Il tutto accade in questo clima di perenne campagna elettorale.

– Sicuramente ti riferisci al libro scritto dal pentito Daniele Sciabica, ex ‘stiddaro’, poi dichiaratosi killer di ‘Cosa nostra’, il quale dopo aver commesso un omicidio in Germania per il quale aveva riportato una condanna all’ergastolo, si era autoaccusato di altri quattro omicidi di mafia per i quali non era stato neppure indagato, 

Ho ascoltato le interviste rilasciate da Sciabica al direttore di una testata agrigentina. Sciabica più che narrare la propria storia di spietato killer, sembra voler assurgere a un ruolo socio-pedagogico. Dalle interviste emergono pochissimi fatti, peraltro già conosciuti da parte di chi ha seguito le vicende giudiziarie  del pentito, che in altre sedi ha narrato di rapporti mafia-politica, veri o presunti che fossero. I collaboratori di giustizia sono importanti, ma le loro propalazioni devono sempre essere oggetto di attente valutazioni perché le si possa conferire valore probatorio. In sintesi, l’analisi negativa di riscontri con altri elementi di prova, da un lato impone al magistrato di astenersi da una valutazione di colpevolezza dell’imputato o indagato che sia, dall’altro non dà neppure la certezza che il collaboratore nell’ambito di una chiamata in correità abbia mentito sol perché dalle sue dichiarazioni non si è arrivati alla prova certa data dai riscontri. Se il libro dello Sciabica si fonda sulla narrazione di quanto abbiamo visto nel corso delle diverse interviste, non mi stupisce che sia introvabile, visto lo scarso valore che lo stesso rivestirebbe per una più approfondita conoscenza del fenomeno mafioso, in particolare nella nostra provincia. Peraltro non so se prendere come una boutade la risposta alla domanda dell’intervistatore se l’allora killer avesse conosciuto uomini del calibro di Riina Provenzano o Brusca, ottenendo in risposta che aveva conosciuto soggetti a di sopra di loro, riferendosi a Francesco Messina Denaro, padre del boss castelvetranese morto recentemente. Peccato che l’intervistatore non abbia approfondito gli aspetti relativi al rapporto mafia-politica, anche se devo ammettere che non mi meraviglia per nulla…

E in quanto a campagna elettorale?

– Agrigento è una città in perenne campagna elettorale, un laboratorio di progetti politici che vengono poi riportati su più larga scala, dai livelli regionali a quello nazionale. Non dimentichiamo quel sessantuno a zero costruito a tavolino da Andreotti e Cossiga, che trovò in Gianfranco Miccichè il ‘chimico’ del laboratorio siciliano. Tutto ciò che avviene non è mai per caso. A proposito del pentito Daniele Sciabica mi torna in mente quando venni accusato di aver “buttato una polpetta avvelenata” in campagna elettorale pubblicando di un’indagine -che precisai essere stata archiviata – a carico di un parlamentare agrigentino, chiamato in correità dalpentito, per aver concorso in un omicidio di mafia.Un fatto eclatante visto il ruolo del parlamentare e considerato anche il rapporto di amicizia e vicinanza politica con l’ex senatore Marcello Dell’Utri. L’articolo nasceva dallo stupore di non aver letto nemmeno sulla stampa locale una seppur brevissima notizia. Chi oggi si diletta ad intervistare il pentito, assieme ad altri , all’epoca mi diede addosso facendone una questione di carattere politico, come se a me – che durante quel periodo mi trovavo a Parigi – potesse interessarmi qualcosa della politica agrigentina. Una vicenda che risale al febbraio del 2015 e che creò tensioni anche a livello nazionale. Il fatto più curioso accadde nel mese di aprile, quando il Gup di Palermo dichiarò il “non luogo a procedere per mancanza delle condizioni di procedibilità”, accogliendo l’eccezione formulata all’udienza precedente dall’avvocato Monica Genovese – difensore di Sciabica – motivata dal fatto che “l’estradizione dalla Germania fu concessa per altri motivi che nulla hanno a che vedere con questi fatti”. Sciabica, infatti, dopo essere stato arrestato nel 1993 ad Amburgo, ed aver riportato una condanna all’ergastolo per omicidio, aveva chiesto di essere trasferito in Italia per scontare il resto della pena ai sensi della Convenzione sul trasferimento dei condannati, in base ad un accordo con la magistratura tedesca che prevedeva non dovesse essere processato per fatti diversi da quelli per i quali la condanna, e che non vi fosse alcun inasprimento della pena. La decisione del Gupdell’epoca, evidentemente non aveva tenuto conto -poiché certamente non ne era a conoscenza – che lo Sciabica, tramite il proprio legale, aveva in precedenza fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo nel tentativo di sottrarsi a quanto previsto dal nostro ordinamento giuridico per i reati per i quali era stato condannato in Germania, lamentando che il periodo di detenzione in Germania sarebbe stato non superiore ai quindici anni, mentre in Italia la detenzione minima prevista è di 26 anni. Un ricorso che era stato respinto come da sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – da me immediamente pubblicata – dell’ottobre 2014, che nel rigettare la richiesta del condannato, metteva in evidenza come lo stesso nel chiedere di essere trasferito in Italia per scontare il resto della pena avesse accettato che le autorità giudiziarie italiane avrebbero potuto avviare un procedimento penale contro di lui, giudicarlo e privarlo della libertà personale per un altro reato diverso da quello per cui era stato condannato. Anche di questo gli esperti di mafia, compreso l’attuale intervistatore, faceva menzione. Soltanto alla fine del 2016 la Dda ha risolto la questione ed ha istruito un nuovo processo che è ripartito davanti al giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Lorenzo Matassa, e ha portato Sciabica a un’ulteriore condanna a 20 anni. Ovvio che io debba chiedermi come mai giornalisti che si spacciano per esperti di fatti di mafia non si fossero interessati a un’indagine quando questa riguardava un noto parlamentare agrigentino, e come mai nessuno avesse fatto riferimento alla possibilità di istruire un nuovo processo a carico del pentito,come a distanza di quasi due anni è avvenuto. 

Torniamo ai nostri recenti dossieraggi nazionali, che valenza può avere il giornalismo nel raccontarli ?

– Il mondo dell’informazione rischia di avere, più o meno consapevolmente, una parte attiva in tutto quello a cui stiamo assistendo. Il dossieraggio ha come fine quello di ricattare la vittima o di favorire un suo competitor, politico o finanziario che sia, il quale utilizza le notizie illecitamente ottenute per danneggiare l’avversario. In questi casi, lo strumento è generalmente la stampa. Chi ne ha interesse, infatti, passa la ‘velina’ al giornalista che scrive l’articolo in merito. A questo punto però va fatto un distinguo tra il giornalista inconsapevole degli antefatti, che dunque pubblica la notizia per quello che è rendendo un servigio ai propri lettori, e colui che invece pur sapendo che si tratta di un’informazione ‘tossica’ creata a regola d’arte e di provenienza illecita, si presta consapevolmente ad assolvere al ruolo di killer mediatico. A differenza di quello che fu la mia storia nella vicenda Sciabica, in merito alla quale le informazioni le avevo attinte da fonti ufficiali aperte, in questo caso si dovrebbe veramente parlare di ‘polpette avvelenate’. Purtroppo chi assume la veste di killer mediatico, secondo le circostanze assume anche quello di zerbino del potere. Ci sono stati casi in cui, come nella vicenda di Antonello Montante, il compito di creare falsi dossier è stato affidato direttamente a giornalisti…

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